Così Cascella diede forma al dolore

«Risento ora nell’anima i vecchi violini, violini e trombe, suonati da tutti i rabbini morti nel campo, mi tengono compagnia durante il lavoro, con i loro nasi adunchi come grandi lame nel vento d’autunno. A questo oggi ho pensato mentre lavoravo al nuovo progetto della torre, in basso sul davanti c’è proprio una barriera di protesta fatta da questi strani, poetici fantasmi. Una spettrale barriera, crudele e decisa, in opposizione paurosa, una vendetta biblica, una lunga tragica opposizione, uno sbarramento a quanti vorranno ancora uccidere. Lo sai che nel silenzio del campo si sentono mille favole raccontate da tutti i morti? Nell’erba alta ci sono ancora le loro immortali impronte».

Perché? Era l’unica parola, dal peso immane, che Pietro Cascella (1921-2008) aveva voluto affidare alla voce muta delle sue pietre, posandole nella landa desolata del campo di sterminio di Auschwitz, sulla pianura degli orrori, a ridosso delle baracche e dei forni crematori distrutti dalle SS in fuga. Un non-luogo abominevole, che l’artista stesso aveva definito, nelle sue lettere alla moglie Cordelia, simile a un limbo, «quel luogo che non è né inferno né paradiso».

Dal 1957 Pietro si era misurato con un’impresa ardua e poderosa che avrebbe segnato per sempre la sua vita e la sua carriera di scultore: la costruzione del Monumento ai martiri del popolo polacco e di altri popoli, inaugurato il 16 aprile del 1967, un compito al quale l’artista dedicherà quasi dieci anni di lavoro.

Il primo progetto, firmato insieme al fratello Andrea e all’architetto Julio Lafuente, vinse il concorso bandito dal Comitato Internazionale di Auschwitz con sede a Parigi, al quale parteciparono 685 autori, tra architetti e scultori, provenienti da 36 paesi diversi, i quali elaborarono 426 progetti.

La scultura, singolare e suggestiva, prevedeva una volumetria dinamica, un complesso di ventitré blocchi, in ricordo delle nazioni che avevano subito la condanna delle deportazioni. Pseudo vagoni in cemento, intervallati da massicci ganci di congiunzione, che sarebbero stati posizionati proprio lungo i binari della morte.

Il lavoro di Pietro era iniziato nel 1957, ma il suo progetto rimarrà solo un segno a matita sulla carta, corredato da numerosi bozzetti, oggi scomparsi, ma ancora visibili nelle fotografie d’archivio. Sarà la pubblicazione del Catalogo Generale delle Opere di Pietro Cascella a riportare in vita il primo progetto e gli innumerevoli bozzetti dimenticati che accompagnarono la faticosa e travagliata vicenda della realizzazione del monumento.

Una lunghissima gestazione, tra continui rinvii, modifiche, revisioni, contraddizioni e ripensamenti. «Andrea e Lafuente non se la sentirono di continuare. Per la verità, pareva un’impresa senza fine. Ma a me stava a cuore. Ci credevo. Rimasi solo. Per prima cosa visitai Auschwitz e subito dopo capii cosa non dovevo fare».

Dalla diretta e forte affermazione di Cascella trapela tutta la sua umiltà, la sua tenacia e il suo intento civile che lo porterà a concepire nuove e inarrestabili idee per il memoriale, la cui proposta era stata inizialmente accantonata (e poi respinta), perché secondo la giuria internazionale il sistema dei vagoni avrebbe alterato l’impianto originario del campo e ne avrebbe ostacolato la completa visuale terrificante. Cascella lavorò infaticabilmente e a pieno ritmo, presentò diverse sculture, e trovò una soluzione che non intralciasse la rigida e agghiacciante geometria del lager, ma che riuscisse a fondersi con lo spirito del luogo. Infatti ancora oggi il carattere del campo di concentramento rimane ben visibile, benché il monumento si estenda per 57 metri, tra le torri di guardia, le baracche, le camere a gas e le macerie dei forni crematori.

Nessuna immagine simbolica sarebbe stata in grado di esprimere la tragedia dell’Olocausto, il vuoto di fronte all’annientamento di milioni di vite brutalmente spazzate via da un odio disumano e insaziabile. Ad Auschwitz Pietro lavora al fianco dei polacchi, il suo principale collaboratore è lo scultore Jerzy Jarnuszkiewicz, e nei quindici mesi di cantiere i due alloggiano nelle stanze di quello che era stato il primo comandante del campo, Rudolf Hoess. Gli operai sgrossatori e gli scalpellini lavorano sul posto, a mano, una pietra chiamata Radkuf, un’arenaria dura e compatta estratta nelle vicinanze di Oswiecim. Per la pavimentazione della piattaforma fu utilizzato un granito grigio; mentre una gigantesca lastra in granito nero si innalza verso il cielo per quattro metri e mezzo, con al centro un triangolo rovesciato, simbolo dei prigionieri politici.

«Gli uomini che mi aiutano sono contadini, i loro scalpelli sono pesanti, la pietra si apre a squarci, il risultato è una grande forza drammatica e paziente, come deve essere una scultura». Il muto arcaismo delle pietre tombali impone una presa di coscienza, nel contatto quasi metafisico con la sofferenza indicibile evocata dallo sgomento della pianura circostante, che è rimasta integra conservando i sinistri fabbricati della morte.

Lo scalpello dei silenziosi tagliapietre non ha cercato il lirismo, la decorazione, né un segno di stile. Nella pietra che si ammira oggi non c’è traccia di figuratività: è una creazione votata al silenzio delle anime innocenti, in una ideale materializzazione del peso della colpa.

Le sculture di Cascella non appaiono come un monito o un memento, ma lasciano un varco aperto perché il visitatore si interroghi sulla inaudita ingiuria inflitta alle vittime, in uno spazio appositamente congegnato per annientarne la mente e il corpo. Morti che non hanno avuto sepoltura, ridotti a cenere nei forni crematori o gettati bestialmente nelle fosse comuni.

«Non so se ce l’ho fatta. Ma ho lavorato, sperando che la mia statua riesca sempre a tramandare questo perché?, come un atto di accusa senza odio, come il segnale di una presa di coscienza».

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